Franco Buffoni (a cura di), RITMOLOGIA. Il ritmo del linguaggio. Poesia e traduzione, pp 412, ed. Marcos y Marcos, 2002. www.marcosymarcos.com.

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Scrivere oggi il termine “ritmologia” mi dà una sensazione simile a quella che provai nel 1988 quando scrissi “traduttologia” presentando gli Atti del Convegno “La traduzione del testo poetico”, da cui l’anno successivo sarebbe nata la rivista “Testo a fronte”. Ricordo che allora l’opposizione e il dileggio di molti non concernevano tanto il termine in sé (per esempio: traduttologia o translatica?) bensì l’accettazione concettuale del fatto che potesse essere concepita l’idea di una scienza della traduzione.

Oggi percepisco reazioni simili parlando di ritmologia, alias di scienza del ritmo. Ma insisto, nella convinzione che tra dieci o quindici anni il termine sarà di uso corrente.

Allo stato attuale della ricerca si potrebbero indicare tre fondamentali indirizzi della ritmologia: un indirizzo filosofico, un indirizzo filologico-linguistico, e un indirizzo poetico.

Nel primo ambito configuriamo i filosofi, che tendenzialmente dovrebbero applicarsi alla categoria della ritmicità in senso ampio, cercando la funzione che il ritmo ha nel mondo.

Nel secondo ambito configuriamo i filologi, che guardano al ritmo cercando anzitutto di definire che cosa esso sia. Qui la auctoritas è Beda il Venerabile con la chiarissima distinzione: “Il ritmo può sussistere di per sé, senza metro; mentre il metro non può sussistere senza ritmo. Il metro è un canto costretto da una certa ragione; il ritmo un canto senza misure razionali”. Una distinzione che ritroviamo modernamente espressa nel Traité du rythme di Meschonnic e Dessons: “Il ritmo non è formalista, nel senso che non è una forma vuota, un insieme schematico che si tratterebbe di mostrare o no, secondo l’umore. Il ritmo di un testo ne è l’elemento fondamentale, perché ritmo è operare la sintesi della sintassi, della prosodia e dei diversi movimenti enunciativi del testo”. Compito dei filologi è dunque di accordarsi sul significato, di studiare la parola, e infine di condurre l’analisi secondo modalità che contemplano la lingua e la storia della lingua.

Con i poeti, ciò che conta del ritmo è il momento in cui esso si fa parola, cioè diventa linguaggio e dunque si realizza attraverso una particolare intonazione. (In quanto il ritmo è soggetto, se un poeta trova il ritmo, trova il soggetto; se non lo trova, i versi che sta scrivendo non sono arte).

Comune ai tre ambiti è la ricerca di come il ritmo metta ordine nel / e modelli il pensiero.

Fondamentale, nell’attuale snodo della riflessione ritmologica, è lo scontro tra una concezione che potremmo definire storica e quella che si potrebbe definire l’”opzione”-Meschonnic.

La concezione storica, valida sia che si parli di ritmo letterario o di ritmo musicale o di ritmi naturali (maree, ecc.) parte da un concetto di misura, di ripetizione, di continuità /discontinuità, di cadenza. Battito del cuore, dunque, come esempio più alto di qualcosa di alieno dalla necessità che l’uomo sia nella storia, di ben più animalesco e profondo, di ineluttabile e ancestrale, come l’espansione e l’implosione dell’universo, come il respiro primordiale.

E questa è senz’altro la linea di definizione preferita dai poeti, che parlano di ritmo come di una vibrazione che attraversa il mondo “e in varia misura il corpo umano inteso come sonda che percepisce e recepisce onde dotate di una corporeità” (Franco Loi). Dunque, di un ritmo estraneo alla soggettività poetica, che scorre e passa nel mondo, investe la natura e le persone. A riguardo, “Il primo battito cardiaco dell’universo” è il significativo titolo che Tomaso Kemeny scelse nel 1994 per il proprio volume dedicato a Dylan Thomas nell’ottantesimo anniversario della nascita.

D’altro canto, se si conviene sul fatto che la prosodia e la cadenza sono i meccanismi grazie ai quali il bambino accede al linguaggio, il poeta – nel suo poièin – non farebbe che rispecchiare questa acquisizione primaria della lingua. Secondo questa prospettiva, si nasce poeti in quanto la musica è nell’anima. E il ritmo attraversa il mondo, si traduce nel corpo e attraverso questo viene restituito al mondo: un processo che oggi può essere “disturbato” dai suoni meccanici della modernità.

L’opzione Meschonnic si pone in antitesi a questo sentire universale sul ritmo e ha come presupposto lo storico studio, apparso nel 1951, di Emile Benveniste, La nozione del “ritmo” nella sua espressione linguistica, che dimostra come nella filosofia ionica rhythmos non abbia il significato attribuitogli successivamente da Platone, connettendolo alla misura. In Democrito e in Eraclito rhythmos significa forma distintiva, figura proporzionata, disposizione, e – continua Benveniste - non è mai riferito al movimento regolare delle onde del mare; il termine presso gli ionici descrive delle “disposizioni” o delle “configurazioni” prive di “stabilità o necessità naturali e derivanti da una sistemazione sempre soggetta a cambiamento”.

In sintesi, si potrebbe affermare che, con Platone, il concetto di “continuum” diviene un’ipotesi di discontinuo, idealmente già contenente anche tutte le nostre successive riflessioni su metrica e ritmo. Un’ottica che inevitabilmente ci porta a considerare il ritmo non più come l’alternanza tra un tempo forte e un tempo debole, bensì – nelle parole di Meschonnic – come “l’organizzazione del movimento della parola attraverso un soggetto”. In pratica, con la poetica del ritmo di Meschonnic, siamo all’interno di una poetica critica, di una antropologia storica.

In un’ottica poetico-traduttiva l’ambito su cui occorre approfondire la riflessione è quello definibile dell’“armonia del verso”, che implica il concetto di melodia. E che a sua volta dipende dalla natura della lingua e dalla sintassi usate da un autore. Allo scopo non di distinguere tra prosa e poesia (il ritmo è proprio tanto della poesia quanto della prosa; la distinzione tra poesia e prosa è storica: nella Bibbia non esiste), bensì di smentire che la poesia (e dunque anche la traduzione di poesia), per essere moderna, debba necessarimente essere “d’avanguardia”. E che una ars combinatoria di parole, per quanto intelligente e raffinata, sia davvero la frontiera ultima e inevitabile della poesia “moderna”.

Un approfondimento della riflessione sul concetto di armonia ci porterebbe inevitabilmente a sconfinare in ambito specificamente musicologico, a dimostrazione del fatto che lo studio della ritmologia non può essere condotto se non in un’ottica interdisciplinare, e con apporti di studiosi anche di settori apparentemente distanti da quelli umanistici. Un’ottica che inevitabilmente rende impossibile il compito ad un solo studioso, e tuttavia – almeno sul piano concettuale - facilita la messa in discussione di consolidati luoghi comuni, come quello che vede l’arte sonora quale unico vero mezzo di comunicazione tra popoli che parlino lingue diverse (anche la musica è lingua ed è ancorata al luogo dove nasce); o quello che la distinzione sia tra pittura astratta e pittura figurativa (e non tra pittura con un proprio ritmo interno e pittura senza un proprio ritmo interno, come ben dimostra lo stesso Meschonic nel suo trattato). Ma anche – per tornare sul nostro terreno poetico-traduttivo che, per misurare le quantità sillabiche, si debba necessariamente contare. O che “scrivere” una poesia (o una traduzione) sia sinonimo di “comporre” una poesia o una traduzione, come se la poesia o la traduzione non potessero essere scisse dalla scrittura. Ci si potrebbe persino chiedere che cosa conservi della poesia o della traduzione - del ritmo poetico - la sua rappresentazione grafica su manoscritto o pergamena.