Copertina di Più luce padre Dialogo su Dio la guerra e l' omosessualità

Uscito nel novembre 2006 presso www.lucasossellaeditore.it , il libro ha avuto anticipazioni su www.nazioneindiana.com con introduzione di Andrea Raos e di Andrea Inglese e su Liberazione a firma di Aldo Nove.

Liberazione sabato 14 ottobre 2006
“Più luce, padre”, un epistolario filosofico di Franco Buffoni. Il poeta colloquia col nipote parlando della figura paterna. Ma anche un confronto tra diverse posizioni di pensiero su Dio, guerra e omosessualita`

di Aldo Nove

Essere di sinistra oggi vuole dire anche confrontarsi con un libro, se l’ineluttabilità delle questioni che mette in gioco lo rende quanto mai urgente. Più luce, padre di Franco Buffoni (Luca Sossella editore, pp. 209, euro 10) è infatti la più lucida riflessione su tematiche come
la guerra, la religione e l’omosessualità (intesa anche come cultura del diverso) degli ultimi anni. L’occasione è tanto semplice quanto matica:
l’autore, poeta e docente universitario affermato, ritrova alcuni appunti stenografati dal padre in campo di concentramento. Dal confronto con quei testi ne è nato dapprima un libro di poesie, Guerra, edito con successo da Mondadori e, poi, questo “dialogo filosofico” in cui il poeta, della sinistra liberale e radicale, si confronta con il nipote, marxista. Ne segue una ricognizione a tutto campo di sett’anni di storia d’Italia che è un confronto con il passato e una ricostruzione delle forme di pensiero che hanno portato all’attuale crisi di valori dell’occidente. Un occidente attraversato e dilaniato da forze sempre diverse ma tenute tutte in piedi dallo stesso collante sociale e psicologico: un frainteso senso dell’onore e dell’orgoglio. Quello che ha portato in carcere il padre del poeta, fascista monarchico e oppositore della repubblica di Salò, lo stesso “onore” che tiene insieme gli eserciti, che legittima i fanatismi e le guerre, tutte le guerre. Buffoni ritrova, dialogando del suo passato con il nipote, una figura antagonista a tutto ciò. E’ quella del disertore, di chi si sottrae alla logica (ma sarebbe meglio dire “alla passione”) dell’onore, dell’orrido onore che spinge alla guerra, volgendo la “camaraderie” (il senso di “fratellanza”) in miccia esplosiva. “Il nostro onore è la fedeltà”: era scritto - ci ricorda Buffoni - sulle fibbie delle Waffen-SS. E in nome dell’orgoglio Oriana Fallaci ha scritto quello che nei suoi ultimi scritti è stato un vero e proprio panegirico dell’odio. Onore, orgoglio: Buffoni cita Primo Levi che, raccontando di sé, scrisse «per sciocco orgoglio ammisi di essere ebreo». Per quell’orgoglio, ci ammonisce la storia e l’opera di Primo Levi, l’autore di Se questo è un uomo finì nel lager. Ed è proprio a proposito di Primo Levi, della sua «altissima autocoscienza», che Buffoni ci ricorda che «quanto più tra gli uomini vige il sentimento dell’onore (con un suo codice inflessibile), tanto più questi uomini pretendono che la parte debole della società si uniformi a un codice di sottomissione». Alla domanda del nipote su quale sia la parte più debole della società, Buffoni risponde «le donne e gli omosessuali». Ma ancora sull’onore, Buffoni ricorda che, in Italia, «Nella seconda guerra mondiale parlò di onore sia chi si arruolò nella Rsi sia chi si fece due anni di lager pur di non arruolarsi». E a questa considerazione aggiunge un documento che fa venire i brividi.
E’ una lettera di Benito Mussolini, indirizzata alla sorella Edvige: «Che in Italia si faccia del razzismo o dell’antisemitismo è cosa tanto importante nella sua apparenza politica quanto priva di peso nella sua sostanza reale. La purità della razza in questo popolo sul quale sono passate tante invasioni e che ha assorbito tante genti dai quattro punti cardinali, e il pericolo semita in una Nazione come la nostra dove perfino l’alta finanza, e perfino se manovrata dagli ebrei, non può non diventare qualcosa di cattolico (io, tra parentesi, so che tu e altre persone della tua famiglia aiutate gli ebrei, e non me ne dispiace, e penso che così potete constatare l’assoluta labilità delle nostre leggi razziali) sono evidentemente fandonie da lasciar scrivere a certi zelatori. Ma se le circostanze mi avessero portato a un Asse Roma-Mosca anziché a un Asse Roma-Berlino, avrei forse ammannito ai lavoratori italiani l’equivalente fandonia dell’etica stakanovista e della felicità in essa racchiusa». Questa lunga citazione per dire che onore e orgoglio sono imposti dall’alto per motivi che con l’orgoglio e l’onore nulla hanno a che vedere: piuttosto, sono gli interessi personali dei potenti, a reggere la portata devastante di tali “valori”. Allora ecco l’esaltazione dello stato di diritto rispetto allo stato etico, l’elogio della ripartizione dei poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) in organi che possano controllarsi a vicenda garantendo il più possibile la libera scelta dell’individuo, passando in rassegna tutte le esperienze che hanno caratterizzato il Novecento. Ad esempio quella sovietica: «L’esperienza dei soViet è finita male - dice Buffoni - perché mancò la possibilità che fosse una libera scelta anche per chi sarebbe venuto dopo». La libera scelta. Sempre in panoramica sullo scorso secolo, Buffoni ci ricorda che furono soltanto 14 i docenti universitari di tutta Italia a rifiutarsi di giurare fedeltà al regime fascista. 14. Una cifra irrisoria. E’ scavando nella storia, nelle ossessioni della storia che vuole farsi etica che Buffoni ci riconsegna dati anche insospettabili sul tempo trascorso e sull’attuale. Ad esempio riportando alla luce il fatto che fu proprio nella pacifica e illuminata Svezia che «tra il 1935 e il 1976 settantamila donne vennero sterilizzate in quanto portatrici di handicap, indigenti o di razza mista». «Più, luce, padre, più luce», chiede l’illuminista Buffoni citando Goethe che, sul letto di morte sembra avesse detto proprio queste parole al prete che voleva confessarlo. Più luce sui dogmi religiosi e sugli effetti catastrofici che questi portano sulle civiltà: «Da laico, omosessuale e italiano, sono incapace di Intravedere degli spiragli di pari opportunità per via della soffocante presenza mediatica vaticana». Buffoni, per tutto il libro, contrappone ragionevolezza a razionalismo, proponendo un’«etica basata sul rispetto dell’intelligenza e della natura, sullo studio armonico delle scienze e dei fenomeni naturali, del micro e del macro, dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, della biologia e dell’astrofisica: astronomia e non astrologia». Esaltando l’azione concreta di Madre Teresa di Calcutta e deprecando i dogmi di Ratzinger. Altrimenti «Continuerà a lievitare fino a fagocitarci questo mostro di consumismo e padre Pio, di miracoli e volgarità, di ingiunzioni dogmatiche e banalità a cui abbiamo lasciato il campo libero».
A questo punto la morale è chiara. Non fosse altro che una vera morale laica e ragionevole non può non lasciar spazio alle opposizioni e alle critiche, ed è per questo motivo, altamente etico, che il libro chiude con una lettera del nipote, secca e severa ma dialogica rispetto allo zio e ai suoi valori: «Sai che - dice il nipote Piero allo zio Franco - più ci penso più mi sembra che la tua utopia assomigli proprio a un campus nordamericano politicamente corretto? Tante casine neogotiche, pub etero e omo, filosofi analitici in bermuda, scoiattoli, prati verdi curati da giardinieri portoricani privi di tutele sindacali. Berkeley insomma: San Francisco a venti minuti di metropolitana, Silicon Valley a un’ora di macchina [...] a proposito di Sylicon Valley: sai cosa c’è scritto sul retro del mio computer Apple Power 15? Made in China. Ora, mentre noi ci spediamo le nostre cazzate protetti dagli “stati di diritto”, in Cina milioni di minorenni assemblano senza diritti i nostri computer [...] La verità è che a te e ai milioni che vivono negli “stati di diritto” dei minorenni cinesi non importa nulla [...] Ma perché credi che io e i miei amici cerchiamo sempre di andare a contestare i G8? Perché tutto in noi si rifiuta di diventare come te, come voi! E l’immagine edulcorata dell’individualismo moderno che tu sostieni mi fa ancora più schifo!».
Ecco ribaltata la frittata. Le due anime della sinistra definitivamente separate. Eppure, chiude il nipote: «Sai di cosa sei riuscito a convincermi? Che l’omosessualità rappresenta davvero la punta più avanzata del cammino occidentale verso la dissoluzione di tutte le appartenenze». Verso la dissoluzione, quindi, dell’onore e dell’orgoglio. Ma ancora, sui temi della critica alla religiosità: «Si vedono bene le ragioni della tua critica al Vaticano; ma non pensi che i nemici principali, oggi, possano essere altrove e si annidino magari nella superficialità, nella sordità, nel conformismo e nell’indifferenza?».

Flavio Santi recensisce Più luce, padre di Franco Buffoni (luca sossella editore 2006) su L’Indice dei libri del mese, maggio 2007

La volontà di controllare contemporaneamente la molteplicità formicolante e asintotica della propria vita denunciava l'inesorabile scacco esistenziale in una struggente poesia di Buffoni che apriva Il profilo della rosa (Mondadori 2000). Lì si parlava di polittico e della consapevolezza di una sua inapplicabilità. Se il polittico è destinato al fallimento ancora praticabile è invece il dittico come emerge da due libri gemelli nell'ispirazione e nelle esigenze che li muovono: questo in prosa e la raccolta poetica Guerra (pp. 208, euro 9,40 Mondadori Milano 2005). Pur in costante risonanza e dialogo fra loro a testimoniare un'esigenza unitaria di comprensione ognuno dei due libri sceglie però il proprio particolare grado d'incidenza; lo stemma araldico potrebbe essere la celebre pensée di Pascal: "Le coeur a ses raisons que la raison ne connaît point". Guerra infatti risponde alle ragioni del cuore laddove Più luce padre si appella al tribunale dell'intelligenza. Il libro di poesia indaga con una tensione polifonica e mimetica a dir poco impressionante alquanto rara in Italia la "radice del male (...) zoologica" quel "guerra è sempre" di leviana memoria. Si tratta di un volo pindarico attraverso il tempo e lo spazio dagli antichi germani fino alla Luftwaffe passando per gli armigeri rinascimentali e i soldati della Grande guerra. Un'intensa compassione cadenzata da un passo da chronicler audeniano pervade questa poesia; compassione che diventa comprensione se si passa a Più luce padre. Quest'ultimo testo ripristina la tradizione del dialogue philosophique di matrice illuministica. Come già si accennava vista la comune ragione ispiratrice declinata nei differenti modi congeniali ai due generi di testo è interessante seguire seppure in sintesi le dinamiche delle coincidenze che si manifestano in emersioni testuali di vario livello. Il primo livello è quello più evidente la citazione esplicita di poesie da Guerra frequente nella prima parte di Più luce padre. Il secondo livello è l'identità dell'argomento variata nelle rispettive trattazioni: i versi "Perché tutto prima o poi diventa musical / Carta da gioco figurina / Hitler e il Feroce Saladino / Dracula l'impalatore / E senza più coscienza di dolore" rimbalzano nella prosa "È il (...) tipo di male che prima o poi nella memoria collettiva diventa mito e musical carta da gioco figurina: Hitler tra qualche decennio verrà percepito come il Feroce Saladino o come Dracula l'impalatore. Senza più coscienza del dolore"; oppure la sequenza "Anche perché la vera giovinezza / Non la vivi che dopo / Negli occhi un poco accesi di un nipote / Che non parte soldato / E gli racconti la verità / Sulla camaraderie" rimanda alla prima parte del trattato. Il terzo livello è quello più impercettibile della microcitazione più o meno occulta: il verso "Disumanandoti se piangi" riverbera nella frase della prosa "L'umano è ciò che può essere infinitamente disumanizzato" citazione fra l'altro da Agamben dando vita così a una serrata struttura a matrioske. Ma se entrambi i libri vivono il loro momento di sovrapposizione nella tematica della guerra sollecitata dal comune processo d'innesco (il rinvenimento del diario di prigionia in Germania del padre stenografato su cartine da tabacco) nel testo in prosa si delineano a partire dalla seconda parte nuovi spazi di riflessione: l'omosessualità la religione l'ateismo. Da qui la sua funzione di libro-ponte tra il passato e il futuro (da anticipazioni su rivista sappiamo che le nuove poesie di Buffoni proprio verso queste tematiche sono orientate). L'autore delinea le contrastate vicende del pensiero razionalista (quello autentico però come sottolinea nato dalla duttile "ragione- ragionevolezza" e non dalla monolitica "ragione-razionalismo"): l'apogeo nella Grecia del IV secolo a.C: l'avvento nefasto della teologia paolina la grande rivoluzione del Sei-Settecento l'Illuminismo quale faro fondamentale in continuo rischio di estinzione in mezzo a spinte fideistiche di varia natura ed entità. Il traguardo cui guarda Buffoni per la sua idea di società è una spiritualità laica alimentata da un profondo senso storicistico e filologico temperato da giusti sentimenti. Il passo razionale della prosa un po' compassato e scalettato dallo schema domanda (del nipote) e risposta (dello zio autore) non inganni; esso è in grado di lanciare potenti provocazioni degne del più sulfureo pamphlet: la proposta di un dialogo interreligioso in cui gli ebrei rinuncino a proclamarsi il popolo eletto e i cristiani vedano in Cristo un filosofo; l'asserzione che delle tre religioni monoteistiche quella musulmana sia la meno dogmatica (ribaltando una serie di preconcetti profondamente occidentali); e – fulmen in cauda – il suggerimento per la realizzazione di grandi centri polifunzionali dotati di bar nursery e ristoranti con spazi riservati a rotazione a cristiani ebrei e musulmani punto di ritrovo non solo per pregare ma anche per discutere vedere film organizzare feste. Un libro che inevitabilmente si nutre di autobiografismo anzi ne avremmo gradito una più ampia concessione perché proprio laddove riesce a fondere motivi intimi e personali a ragioni storiche e collettive Buffoni dà forse le migliori prove della sua prosa. (Del resto questi sono anni in cui sembra trovare piena conferma l'intuizione di Brodskj che l'unico modo di raccontare sia l'autobiografia: si pensi a Philippe Forest o ad Albinati e Trevi oppure allo stesso Saviano). Romanzo storico-autobiografico in forma dialogica, il libro attraversa il Novecento, proiettandosi nel nuovo secolo come manifesto intellettuale di un poeta, manifestazione di valori e di verità, operetta morale, in una sorta di concretizzazione di quel modello di intellettuale "ironico" che Rorty propone quale attore ideale all'interno dei discorsi e degli spazi di libertà che dovrebbero alimentare le democrazie complesse.

Potete trovare altre recensioni a "Più luce più padre. Dialogo su Dio, la guerra e l'omosessualità" nei link a seguire:

Il libro è in forma di dialogo, strutturato in due parti - Il Padre, La Luce - inframmezzate da alcune lettere: al padre, al giovane nipote, e a poeti quali Giacomo Leopardi e Vittorio Sereni. Propongo qui la lettera a Giacomo Leopardi e la lettera conclusiva del giovane Piero allo zio.

LETTERA A GIACOMO LEOPARDI

Caro Conte Giacomo,
con riferimento al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, è stato da molti osservato che, facendo risalire all’ignoranza e alla credulità acritica l’origine delle credenze magico-oracolari pagane, tu in realtà abbia liberato te stesso da tutte le nozioni che non reggevano alla luce della ragione.
Anche Ghan Singh, uno dei tuoi migliori traduttori in lingua inglese, sostiene questo; tuttavia da cattolico naturalizzato irlandese aggiunge: “Ciò in effetti provocò in Leopardi un altro dualismo: la sua condanna della ragione e, nello stesso tempo, la sua incapacità ad aderire a quelle idee e credenze che non reggono ad un esame critico. Così, suo malgrado, Leopardi è, insieme, l’apostolo e il critico del razionalismo”.
Capisco, stai per arrabbiarti. Per favore non farlo. Ho già detto che invece alla ragione intesa come ragionevolezza continui a tenerci molto.

Per te il vero era nella filosofia; il bello nella poesia. C’è una famosa lettera dello Zibaldone in cui dichiari esplicitamente che in ogni grande filosofo è un grande poeta e in ogni grande poeta è un grande filosofo. Una volta raggiunta - invero molto precocemente - la convinzione della impossibilità di rigenerazione - o persino di conoscenza - attraverso una palingenesi di stampo salvifico, anche per te la filosofia diventò scienza. E come Bacone, come i primi grandi greci, ti occupasti di scienza dichiarando di star facendo filosofia. Sempre temendo, naturalmente, l’alterigia, la supponenza dell’”arido vero”, ma fortemente percependo come irrinunciabile tale propensione alla ricerca.
Se penso che poi furono Gladstone e De Sanctis, Croce e Gentile principalmente a divulgare il tuo pensiero, posso ben capire le ragioni dell’equivoco (tanto duro a morire) circa il rapporto tra te e la ragione. Pensa che, nel Novecento, quando - giustamente - si tentò di tracciare un parallelismo tra il tuo pensiero e quello di J. S. Mill - sulla linea dei giudizi di Gladstone prima e di Matthew Arnold poi - lo si fece in tono negativo, considerando “distruttivo” il pensiero delle Operette e definendo, come fa Helen Zimmern, “nata morta” tout court la tua filosofia.

Ti prego, non stracciare il foglio, continua con la tua coppa di gelato al pistacchio, versati il rosolio e ascolta quanto il pregiudizio teleologico possa ancora obnubilare le menti. Tre sono i punti cardine su cui Zimmern vede convergere “negativamente” il pensiero di Mill e il tuo: “Entrambi credono che un cieco caso governi l’universo, che il male trionfi più spesso del bene e che la natura segua le sue leggi inesorabili senza tener conto dell’uomo”.
Dopo aver letto la Autobiography di Mill, mi sono convinto che la convergenza tra le vostre concezioni non solo resti, ma sia ben positiva: basta rileggere i tre punti anzimenzionati scevri da pregiudizi di carattere teleologico. E al primo punto basta togliere l’aggettivo “cieco”; al terzo confermare letteralmente l’affermazione che la natura segue le proprie leggi (che lo faccia inesorabilmente è solo una prova della sua serietà; e che lo faccia senza tener conto dell’uomo fa sorgere l’inevitabile contro domanda: perché mai dovrebbe tenerne conto?).
Quanto al secondo punto – la convinzione che il male trionfi più spesso del bene – la riflessione potrebbe articolarsi molto a lungo, ma appare arduo sostenere oggi che una concezione finalistica dell’esistenza possa portare a compiere più facilmente il “bene”.

«…Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra».

Qual è, quindi, la “vergogna” di cui, nella Ginestra, giuri che non ti saresti mai macchiato? Ricorrendo alla terminologia già usata, si potrebbe affermare: la vergogna di aver ceduto ad una credenza finalistica, ad una concezione teleologica dell’esistenza. E in questa prospettiva viene ad essere completamente ribaltata l’accusa che per tanti decenni ti è stata mossa. La vera alterigia è quella di chi, non sapendo accettare umilmente il proprio stato di mero caso biologico, giunge a ritenersi – per via forse di rivelazione – un essere in qualche modo “eletto”, e spregiando il “finito” persegue la propria finalistica elezione sopra a tutte le altre specie.

“Io tengo per fermo”, afferma il Folletto nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, “che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie”. Ma non è ai cinquant’anni che separano questo tuo dialogo dalla teorizzazione darwiniana che voglio pensare a conclusione della mia lettera. Sarebbe pertinente, ma consolatorio. Molto più in sintonia col tuo pensiero non consolarsi affatto, scorrendo i nuovi programmi scolastici italiani per l’insegnamento delle scienze, e apprendendo che il creazionismo è stato reintrodotto nei programmi scolastici di alcuni stati americani con pari dignità rispetto all’evoluzionismo.

Ti lascio, conte Giacomo. Ma tornerò presto perché due dei miei maestri – Franco Fortini e Giovanni Raboni – hanno parlato di te riecheggiando il giudizio sulla tua filosofia “nata morta”. E io vorrei affettuosamente contraddirli. Ti lascio, pensando alla tua solitudine intellettuale, quando avevi davvero capito tutto (per esempio sulla durata della vita umana sulla Terra rispetto alle convinzioni del tuo tempo) e non avevi nessuno a cui dirlo. Te lo scrivo in poesia – si parva licet – e ti abbraccio.

Ho pensato a te, contino Giacomo, vedendo
Su una rivista patinata
Le foto degli scavi in Siria a Urkish,
A te e ai tuoi imperi e popoli dell'Asia
Quando intuivi immensamente lunga
La storia dell'umanità.
Altro che i Greci il popolo giovane di Hegel
O il mondo solo di quattromila anni della Bibbia
Credendo di dir tanto, fino a ieri.
Tu lo sapevi che sotto sette strati stava Urkish
La regina coi fermagli
L'intero archivio su mille tavolette
Già indoeuropea nella parlata
L'accusativo in emme. Capitale urrita
Dai gioielli legati all'infinita pazienza
Dei ricami in oro. Tu lo sapevi che poi gli Hittiti
Sarebbero giunti a conquistarla,
Già loro vecchi e di vecchi archivi nutriti...
Sono stufo di preti e di poeti, conte Giacomo.
E di miti infantilmente riadattati.

LETTERA DI PIERO ALLO ZIO

Caro zio,
non so se questa lettera ti farà piacere, ma te la scrivo ugualmente, perché – se non altro – capisco che dialogare con te mi costringe sempre a pensare. E questo è certamente un fatto positivo. Sto preparando, per la parte monografica dell’esame di Storia, Cristo e/o Machiavelli di Giuseppe Prezzolini. So bene che l’autore non è nelle tue corde: mi pare di sentirti: non concepisce lo stato di diritto come un valore assoluto. Neanch’io. Va bene? Adesso posso continuare?
Prezzolini dice che la politica è brama di potere (libido dominandi), e che il pensiero è brama di logica e di verità; ti vedo d’accordo sulla seconda definizione (me lo hai dimostrato in ogni momento del nostro dialogo), mentre sulla prima so già che replicheresti: le regole di uno stato di diritto devono imbrigliare la libido dominandi, impedendo che il potere funzionale divenga carismatico. Ok, zio! Posso continuare?
Prezzolini mutua l’espressione (so che ti piace quando mi esprimo così) libido dominandi da Sant’Agostino (che a sua volta la desume dal proemio del Catilina di Sallustio: operazioni intertestuali: contento, zio?). Al riguardo Prezzolini scrive: “Al fondo del concetto dello Stato di sant’Agostino e di Machiavelli c’è una comune profonda concezione pessimistica della natura umana. Per sant’Agostino è natura corrotta e per Machiavelli è semplicemente natura ferina; ma in ambedue i casi lo Stato non è un bene positivo, bensì negativo”. So benissimo che stai per fremere e vorresti ripartire con Croce e Gentile, lo stato etico e lo stato di diritto, e dopo poco piombare su Bentham e Hume. Mettiti tranquillo, per favore, sto parlando io!
In un altro suo saggio - Vita di Nicolò Machiavelli fiorentino – Prezzolini contrappone Machiavelli, sempre intento a analizzare “la realtà effettuale delle cose”, a Savonarola, “il profeta disarmato” che “si aspettava tutto da Dio”, mentre Machiavelli “si aspettava tutto dall’uomo”. (Quest’altro libro di Prezzolini è del 1927. Mentre leggevo che Savonarola aveva due entità nemiche - i Medici senza Dio e il Vaticano corrotto – mi è venuto in mente che i Savonarola di oggi sono i Talebani, i Medici sono l’Occidente, il Vaticano la monarchia saudita. Ma adesso sembro io un elzeviro di Scalfari e dunque chiudo subito la parentesi).
Caro zio, so che tu accetteresti la contrapposizione Machiavelli/Savonarola, aggiungendo però che nel pensiero del primo vanno innestate le istanze e i princìpi (non i prìncipi!) dello stato di diritto. E’ per questo che ti scrivo.
Due mesi fa, salutandomi prima della partenza per Roma, mi dicesti che “siamo entrati nella IV Guerra mondiale (2001-…), giacché la III è stata la Guerra fredda (1946-1989)”. Curiosamente, mi facevi notare come tutte e quattro le guerre mondiali siano state e siano – in estrema sintesi – degli attacchi fomentati da concezioni etiche dello stato (pangermanesimo, nazismo, comunismo, e adesso fondamentalismo islamico) contro gli stati di diritto.
Caro zio, te lo dico con franchezza: ti si potrà prendere sul serio solo quando avrai affrontato e risolto convincentemente una contraddizione che a me pare fondamentale: l’Occidente che teorizza i diritti civili e difende a casa propria le libertà individuali è lo stesso Occidente che altrove calpesta queste stesse libertà in nome delle proprie necessità economiche. Con una mano si teorizza la libertà per sé, con l’altra, e con gli stessi strumenti concettuali, si pratica oggettivamente ancora lo schiavismo.
In Africa, era in nome del rispetto delle libertà individuali che gli inglesi stabilivano che gli africani non ne erano degni (col che giustificavano il proprio diritto a deportarli e a sfruttare le risorse naturali del loro territorio). E non è solo storia di ieri: anche adesso, le nostre vite, questo stesso nostro dibattere, sono finanziati dal petrolio nigeriano, dai bambini indonesiani nelle fabbriche.
Tu credi che il pensiero liberale (perché questo è il tuo pensiero) sia in grado di confrontarsi con l’altro, con l’altrove? E se sì, come?
Più luce, zio! Più Marx, più Nietzsche, più Freud! Più Adorno (l’ho letto in queste settimane), più Dialettica dell’Illuminismo. Più Bourdieu. Più illuminismo radicale, insomma! Quello che non lascia spazio alle illusioni da anima bella e liberal che tu coltivi.
Sai che, più ci penso, più mi sembra che la tua utopia assomigli proprio a un campus nord-americano politicamente corretto? Tante casine neogotiche, pub etero e omo, filosofi analitici in bermuda, scoiattoli, prati verdi curati da giardinieri portoricani privi di tutele sindacali. Berkeley insomma: San Francisco a venti minuti di metropolitana, Silicon Valley a un’ora di macchina. Ci sarebbe anche il ghetto di Oakland a un quarto d’ora di bicicletta, ma nessuno va mai a Oakland, e dunque il ghetto non esiste.
A proposito di Silicon Valley (che tu preferisci al 68): sai che cosa c’è scritto sul retro del mio computer Apple Power Book 15? Made in China. Ora, mentre i ragazzi della Silicon Valley - come tu dici - “migliorano la nostra vita” , e noi ci spediamo le nostre cazzate per posta elettronica protetti dagli “stati di diritto”, in Cina milioni di minorenni senza diritti assemblano i nostri computer. E non c’entra che la Cina sia ancora formalmente comunista: qualche anno fa sul retro del mio Apple iBook c’era scritto Made in Taiwan, e voleva dire la stessa cosa.
La verità è che a te e ai milioni di coloro che vivono negli “stati di diritto”, dei minorenni cinesi non importa nulla nel profondo; così come non importa nulla delle migliaia di donne musulmane violentate e impiccate a Srebrenica perché la tua civilissima Olanda si rifiutò di rischiare la vita di quattordici soldati volontari; né importa nulla del neocolonialismo, della distruzione delle economie africane eccetera eccetera. Nulla. Tu vivi come in un sogno e scrivi le tue poesie, e sei contento che sia così. Perché solo la logica onirica può giustificare il tuo modo di pensare.
Ma perché credi che io e i miei amici siamo andati in Scozia a contestare il G8? Perché tutto in noi si rifiuta di diventare come te, come voi! E l’immagine edulcorata dell’individualismo moderno che tu sostieni - se permetti - mi fa ancora più schifo! Caro zio, mi sembra proprio che tu non riesca davvero a vederti dall’esterno. Cerca di decostruire anche te stesso: fra quelli dei nemici metti anche il tuo nome!
E ciò che ti sta tanto a cuore - l’esasperata estensione all’individuo del diritto di famiglia, i tuoi amati pacs, insomma tutto l’armamentario liberal-radicale sui diritti civili - non ti sembra irrilevante di fronte alla sfida che sto cercando di porti?
Sai, invece, di che cosa sei riuscito a convincermi? Che l’omosessualità rappresenta davvero la punta più avanzata del cammino occidentale verso la dissoluzione di tutte le appartenenze. In questo senso mi sembra azzeccatissimo il tuo paragone con il disertore. Credo che questa forma moderna di inappartenenza sia proprio l’ultimo stadio - per usare il tuo linguaggio - della specie sapiens-sapiens. E non parlarmi dei pride come luoghi di aggregazione, per favore! Pur con tutta l’umana simpatia, non vedo discendere risultati politici seri da quei contesti, se non forse sotto la forma - anche da noi - di una ulteriore ghettizzazione. Condizione che tu stesso, mi sembra, rifiuti.
Comunque grazie per ciò che continui a insegnarmi, costringendomi a risponderti.

Con affetto, tuo nipote Piero